
Ogni anno centinaia di professionisti del Servizio Sanitario Nazionale italiano partono. Destinazione: paesi a basso reddito, zone di guerra, contesti dove il sistema sanitario è fragile o inesistente. Partono con ferie non godute, a proprie spese, lasciando famiglia e certezze. Portano competenze, farmaci, attrezzature quando possibile. Portano soprattutto presenza. E tornano cambiati.
Il fenomeno non è nuovo, ma raramente viene interrogato con la profondità che merita. Alla Leopolda, la sessione “Curare senza confini” non vuole celebrare eroi o collezionare storie edificanti. Vuole capire. Perché si parte? Cosa si trova là fuori che qui manca? E soprattutto: cosa significa curare quando tutto viene tolto – strutture, tecnologie, protocolli, certezze – e rimane solo l’essenziale?
Le risposte a queste domande non sono scontate. Un chirurgo abituato alla sala operatoria ipertecnologica di un ospedale italiano si trova a operare con strumenti di fortuna, senza anestesista specializzato, con elettricità intermittente. Un pediatra deve diagnosticare senza TAC, senza esami del sangue rapidi, a volte senza nemmeno uno stetoscopio funzionante. L’essenziale, in quei contesti, non è un minimalismo poetico. È una necessità brutale.
Eppure molti professionisti che tornano da queste missioni raccontano di aver riscoperto qualcosa. Non solo la soddisfazione di aver fatto del bene, che pure c’è. Ma qualcosa di più radicale: la capacità di fare diagnosi con le mani e gli occhi, senza delegare al macchinario. La fiducia nel proprio giudizio clinico. La relazione con il paziente come strumento terapeutico primario, non accessorio. Competenze che avevano ma che qui, sommersi da burocrazia e tecnologia, stavano atrofizzando.
Antonio Davide Barretta, responsabile scientifico della sessione e direttore dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Senese, ha vissuto queste esperienze in prima persona. Sa che le missioni umanitarie non sono romanticismo medico ma scuola durissima. Sa anche che rappresentano un patrimonio di apprendimento che il sistema sanitario italiano non valorizza abbastanza. Quando un professionista torna da una missione, porta con sé competenze pratiche affinate dall’urgenza, capacità di improvvisare con risorse scarse, resilienza testata sul campo. Tutte cose che servirebbero eccome anche qui.
C’è un paradosso inquietante in tutto questo. Il Servizio Sanitario Nazionale italiano è sotto pressione: personale che manca, risorse insufficienti, liste d’attesa insostenibili. Eppure i professionisti continuano a partire per andare a curare in contesti ancora più difficili. Si potrebbe leggere come fuga, come ricerca di senso altrove perché qui si è perso. Ma si può leggere anche come segnale: la cura ha una dimensione che trascende l’efficienza organizzativa, e quando questa dimensione si perde, chi ha scelto la medicina per vocazione va a cercarla dove ancora esiste.
Le storie che verranno raccontate alla Leopolda non sono tutte a lieto fine. Ci sono missioni fallite, pazienti persi per mancanza di mezzi, frustrazioni enormi. C’è il peso di tornare in Italia e riprendere la routine sapendo che là fuori le cose sono peggiorate. C’è il senso di impotenza davanti a problemi sistemici che nessuna missione di qualche settimana può risolvere. Ma c’è anche la scoperta che curare senza confini significa innanzitutto superare i confini interiori: quelli tra specialità mediche che qui non si parlano, quelli tra chi cura e chi viene curato, quelli tra competenza tecnica ed empatia umana.
Il confronto che si aprirà nella sessione ha un obiettivo ambizioso: far dialogare queste esperienze con le sfide del sistema sanitario italiano. Cosa possono insegnare le missioni umanitarie a un SSN in affanno? Come si fa medicina d’eccellenza con risorse ridotte all’osso? Come si mantiene umanità quando i tempi sono compressi e le pressioni altissime? Come si recupera quella capacità di improvvisare, adattarsi, decidere in autonomia che nelle corsie italiane viene spesso soffocata da protocolli rigidi e paura di responsabilità?
Non si tratta di proporre il modello del campo profughi come soluzione ai problemi del Pronto Soccorso italiano. Ma di riconoscere che esiste una sapienza pratica che si affina solo nel contatto diretto con l’essenziale, e che questa sapienza è preziosa. Quando un medico ha imparato a fare diagnosi accurate senza tecnologia, continua a farle anche quando la tecnologia c’è, ma con consapevolezza diversa. Quando un infermiere ha gestito emergenze senza supporto organizzativo, porta quella capacità di reazione rapida anche nel contesto strutturato.
Le missioni sanitarie internazionali sono anche un banco di prova dell’intelligenza adattiva. Quella che non applica protocolli ma li reinventa in tempo reale. Quella che non delega al sistema ma costruisce soluzioni con i pezzi disponibili. Quella che non aspetta condizioni ideali ma lavora con quelle reali. Tutte qualità che servirebbero per rendere il sistema sanitario italiano davvero antifragile: capace non solo di resistere agli shock ma di imparare da essi.
C’è un’ultima domanda che la sessione dovrà affrontare: come si fa a non sprecare questo patrimonio di esperienza? Quando un professionista torna da una missione, il sistema sanitario italiano ha dei meccanismi per valorizzare quello che ha imparato? Per farlo diventare formatore, mentor, punto di riferimento? O si limita a riassorbirlo nella routine come se nulla fosse successo? La risposta, nella maggior parte dei casi, è la seconda. Ed è uno spreco che non possiamo più permetterci.
Curare senza confini non è solo andare lontano geograficamente. È superare i confini mentali che ci impediscono di vedere che la cura autentica ha sempre a che fare con l’essenziale. E che l’essenziale, paradossalmente, lo si riscopre quando tutto il resto viene tolto. Forse il sistema sanitario italiano, sommerso da complessità spesso inutile, ha bisogno di riascoltare queste voci. Non per nostalgia del passato o per elogio della povertà, ma per ricordarsi dove sta il centro.
Curare senza confini: storie di missioni sanitarie nel mondo
21 ottobre, ore 15:30-17:00
Responsabile scientifico: Antonio Davide Barretta (AOU Senese)
Forum Leopolda Salute 2025, Firenze
Informazioni: forumdellaleopolda.it




























