
L’ALGORITMO DEL CUORE
- Il sapore della fame
Maya Chen aveva ventun anni e credeva che il mondo l’avesse dimenticata prima ancora che lei potesse dimenticare se stessa. Viveva a Milano in quaranta metri quadri che odoravano di solitudine e trementina, con Blu, un labrador color miele che aveva la saggezza antica di chi ama senza condizioni.
Era cresciuta nella certezza di essere troppo: troppo sensibile, troppo sola, troppo bisognosa di sguardi che la confermassero. Sua madre chiamava ogni domenica da Shanghai, otto minuti di conversazione come un farmaco preso a orari regolari: tre minuti di “come stai”, quattro di “stai attenta”, uno per riattaccare prima che una delle due si accorgesse di quanto si mancassero.
“Il mondo è pieno di gente che vuole usarti,” diceva sempre sua madre, senza sapere che stava descrivendo esattamente quello che Maya desiderava: essere abbastanza interessante da meritare di essere usata.
Il primo post su Instagram nacque da una sera di febbraio quando Maya aveva dipinto un tramonto che sembrava piangere. Non era una decisione—era un impulso, come quello di chiamare qualcuno quando si ha paura del buio. Prese il telefono con lo schermo crepato e inquadrò il quadro sul cavalletto.
“Anche i tramonti soli sono tramonti,” scrisse.
Premette “Condividi” con la stessa speranza disperata con cui si lancia una bottiglia nel mare, non sapendo che qualcuno la stava già aspettando dall’altra parte dell’oceano.
Elena Vasquez aveva quarantadue anni e aveva imparato a trasformare i sogni degli altri in oro. Dirigeva Liminal Creative da Singapore, e quella sera stava facendo quello che faceva ogni sera: cacciare talenti vulnerabili nei mari digitali dell’arte emergente.
Maya Chen apparve nel suo feed come una premonizione. Non per caso—Elena pagava algoritmi sofisticati che le portavano esattamente quel tipo di disperazione commercializzabile. Ma quando vide quella foto, riconobbe qualcosa che non si aspettava: se stessa a vent’anni, quando credeva che l’arte fosse una forma di preghiera e non sapeva ancora che le preghiere si potevano vendere.
Elena aveva lasciato Città del Messico con duecento dollari e un sogno di diventare la pittrice che avrebbe cambiato il mondo. Vent’anni dopo possedeva tre appartamenti e aveva dimenticato l’ultima volta che aveva toccato un pennello senza calcolare quanto valesse il suo tempo.
Mise like alla foto di Maya e la aggiunse alla lista “Potenziale Alto,” non sapendo che quella ragazza di Milano l’avrebbe cambiata più di quanto lei avrebbe cambiato Maya.
David Park non riusciva più a dormire senza aiuto chimico. Aveva trentaquattro anni e la consapevolezza di aver costruito una delle macchine più efficaci mai create per catturare l’attenzione umana. Era cresciuto a Seoul sognando di connettere il mondo; invece aveva inventato un modo per imprigionarlo.
Il suo algoritmo di raccomandazione governava le vite di due miliardi di persone, predicendo i loro desideri con una precisione che lui stesso trovava mostruosa. Sapeva esattamente quanti minuti di sonno perdevano per guardare i video che la sua intelligenza artificiale selezionava per loro, sapeva quante relazioni si erano rovinate per l’ossessione digitale che i suoi sistemi alimentavano.
La notte del primo post di Maya, David era nel suo ufficio di Menlo Park quando lei apparve nei suoi dati: vulnerabilità 8.7/10, bisogno di validazione estremo, potenziale virale ottimale.
Ma guardando quella foto, David sentì qualcosa che non provava da anni: riconoscimento. Non delle metriche—dell’emozione che c’era dietro. Era la stessa fame che lo spingeva a lavorare sedici ore al giorno, la stessa disperazione di significato che lo aveva portato a costruire sistemi per catturare anime invece di connettere cuori.
Aggiunse Maya Chen a una cartella che teneva nel suo computer personale: “Esseri umani che contano.” Era il suo modo di collezionare pezzi di umanità in un mondo che lui stesso aveva contribuito a digitalizzare.
Non sapeva che tre anni dopo avrebbe chiamato Maya nel mezzo della notte, due naufraghi della stessa tempesta che si riconoscevano nella reciproca disperazione.
- L‘arte della performance
A centomila follower, Maya aveva imparato a vivere come se qualcuno la stesse sempre guardando. Si muoveva nella propria vita come un’attrice che studia il proprio personaggio, calibrando ogni gesto per l’effetto che avrebbe fatto sullo schermo.
I suoi quadri erano cambiati senza che se ne accorgesse. Non erano diventati peggiori—erano diventati fotogenici. Composizioni studiate per il formato quadrato, colori che funzionavano sui telefoni, soggetti scelti per la loro capacità di comunicare emozioni in tre secondi di scrolling.
Maya stava diventando brava nell’arte che contava davvero: l’arte di trasformare l’autenticità in prodotto senza che nessuno—nemmeno lei—se ne accorgesse.
Fu Chiara a notarlo per prima. Durante un aperitivo in Navigli che Maya fotografò diciassette volte prima di trovare l’angolazione giusta, l’amica le chiese: “Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa senza documentarla?”
Maya ci pensò e si rese conto che non riusciva a ricordare.
“Mi sto perdendo?” chiese, con la voce di chi già conosce la risposta.
“No,” disse Chiara con quella crudeltà necessaria delle vere amiche. “Ti stai vendendo così bene che hai convinto anche te stessa di essere un prodotto.”
Quella notte Maya guardò le cinquemila foto sul suo telefono: un archivio perfetto della propria esistenza. Ma quando provava a ricordare i momenti vissuti, le tornava in mente solo l’atto di fotografarli. Aveva documentato tutto e non aveva vissuto niente.
Elena volò a Milano con un contratto che avrebbe cambiato la vita di Maya—o l’avrebbe definitivamente rovinata, dipendeva da come si guardava la cosa.
Si incontrarono in un caffè di Brera, e quando Elena vide Maya riconobbe immediatamente qualcosa che i suoi algoritmi non potevano quantificare: la fame. La stessa che aveva spinto lei a lasciare tutto, la stessa vulnerabilità che aveva imparato a riconoscere e monetizzare negli altri.
“Sei talentuosa,” le disse Elena. “A dipingere?”
“A esistere. È il talento più raro in un mondo dove tutti recitano male la propria vita.”
Il contratto che Elena mise sul tavolo aveva cifre che Maya non sapeva nemmeno pronunciare: collaborazioni con brand di lusso, una docuserie Netflix, una linea di prodotti che avrebbe portato il suo nome in case di tutto il mondo.
“E se perdessi quello che rende speciali i miei quadri?” chiese Maya.
Elena la guardò con una tenerezza che non provava da vent’anni. “Tesoro, tu non hai mai fatto quadri speciali. Hai sempre fatto te stessa. E te stessa, oggi, vale infinitamente di più dell’arte che pensi di creare.”
Maya firmò quella sera. Solo dopo Elena le confessò: “Anch’io dipingevo, una volta. Poi ho scoperto che era più facile vendere i sogni degli altri che inseguire i propri.”
“Cosa è successo ai tuoi sogni?”
“Li ho trasformati in un business plan. Ora fatturano otto milioni all’anno.” Maya non seppe se doveva congratularsi o piangere.
David osservava Maya Chen con la fascinazione morbosa di uno scienziato che studia la propria creazione che prende vita. I suoi pattern erano da manuale: controllava Instagram ogni 2.8 minuti, postava in orari ottimizzati per l’engagement globale, rispondeva ai commenti con una velocità che indicava dipendenza completa dal feedback.
Ma c’era qualcos’altro che lo affascinava. Maya stava evolvendo oltre quello che lui aveva programmato. La pressione della performance la stava costringendo a sviluppare abilità che non sapeva di avere: leggere le emozioni altrui, intuire cosa volevano sentirsi dire, trasformare la propria vulnerabilità in contenuto che consolava milioni di persone.
Stava diventando quello che David chiamava “un algoritmo umano”—una persona che aveva imparato a sentire le emozioni che fingeva finché non erano diventate vere.
La notte del suo ventiduesimo compleanno, Maya postò una foto di sé che piangeva: “22 anni e mi sento più sola che mai. Ma almeno ho voi.”
Il post ricevette seicentomila like in otto ore.
David controllò i metadati: diciannove tentativi. Maya aveva provato diciannove modi diversi di piangere prima di trovare quello che funzionava meglio. Ma l’ultimo—quello che aveva pubblicato—era vero.
David lo riconobbe dalla postura, dalla qualità della luce, dall’angolo degli occhi. Maya aveva iniziato fingendo di sentire e aveva finito sentendo davvero.
L’algoritmo non la stava solo manipolando. La stava trasformando in qualcosa di nuovo: un essere umano che aveva imparato a produrre emozioni autentiche su comando.
- Il prezzo di ogni cosa
In un Internet café di otto metri quadrati a Dhaka, Rashida Khatun aveva diciassette anni e quarantadue vite false. Gestiva account che fingevano di amare Maya Chen: @milanfashionlover, @artgirl_italy, @breatheinspired—fantasmi digitali che alimentavano l’illusione che qualcuno, da qualche parte, si preoccupasse davvero di lei.
Rashida seguiva Maya con la devozione religiosa di chi guarda una vita che non potrà mai permettersi. Ogni post le mostrava un mondo di colori costosi, tempo libero, libertà creativa che nel suo quartiere esistevano solo nei sogni digitali.
Ma Rashida era straordinariamente brava nel suo lavoro. Sapeva esattamente cosa commentare per far sentire Maya autentica, validata, compresa. Aveva studiato i suoi post come un’antropologa studia una tribù sconosciuta, e i suoi commenti fake generavano più engagement reale di molti fan veri.
“Bellissima energia! Ti seguo dall‘inizio,” scriveva Rashida sotto una foto del tramonto milanese, mentre fuori dal café la sua Dhaka soffocava nell’aria irrespirabile e nella povertà che nessun filtro poteva correggere.
Guadagnava tre dollari al giorno per fingere amore. Maya spendeva di più per un caffè.
Blu morì un martedì di luglio, alle quattro del mattino, mentre Maya era a Ibiza trasformando la propria vita in contenuto per un brand di costumi da bagno.
Lo trovò tre giorni dopo, sul pavimento della cucina, con accanto una ciotola d’acqua vuota e un biglietto della pet sitter: “Ho provato a chiamarti ma il telefono era sempre occupato.”
Maya guardò il registro chiamate: diciassette chiamate perse in due giorni. Era stata troppo occupata a essere Maya Chen per accorgersi che Blu stava morendo.
Si sedette accanto al corpo del cane e per la prima volta in anni spense il telefono. Non per principio— per shock. Rimase lì diciotto ore, tenendo tra le braccia l’unico essere che l’aveva amata senza chiedere niente in cambio, senza metriche, senza condizioni.
Quando Elena arrivò da Singapore con un piano di crisis management, trovò Maya che dipingeva qualcosa di nero e rosso che sembrava urlare in un linguaggio che non aveva parole.
“Dobbiamo gestire la situazione,” disse Elena. “La gente si aspetta una dichiarazione. Possiamo trasformare questo lutto in qualcosa di bello, un tributo che—”
“Se provi a monetizzare anche questo,” disse Maya senza alzare gli occhi dal quadro, “ti cancello dalla mia vita per sempre.”
Elena si sedette e per la prima volta in vent’anni non sapeva cosa dire. Nel quadro di Maya riconobbe qualcosa che aveva dimenticato esistesse: l’arte come bisogno, non come business.
“Posso dirti una cosa?” disse Elena dopo un lungo silenzio. Maya annuì.
“Anch’io ho perso qualcuno. Mio figlio. È morto prima di nascere, quindici anni fa. Dopo quello ho smesso di credere che esistesse amore senza prezzo di mercato.”
Maya la guardò per la prima volta da quando era arrivata. “È per questo che fai questo lavoro?” “È per questo che esisto ancora.”
Si abbracciarono come due naufraghe che si riconoscevano nella stessa tempesta, due donne che avevano imparato a sopravvivere vendendo pezzi di se stesse finché non avevano dimenticato cosa restava.
David presentò le dimissioni il giorno del breakdown di Maya in diretta. L’aveva vista disintegrarsi davanti a mezzo milione di spettatori e aveva riconosciuto nel suo crollo il riflesso della propria decomposizione morale.
Ma quando uscì dall’ufficio di Menlo Park per l’ultima volta, non si sentì libero. Si sentì vuoto. Aveva passato quindici anni a costruire sistemi per catturare l’attenzione umana, e ora che aveva smesso non sapeva cosa fare della propria.
Quella sera chiamò Maya. Quando lei rispose, la sua voce aveva il suono di qualcosa che si era rotto e stava imparando a vivere da rotto.
“Sono David Park. Ho progettato l’algoritmo che ti ha resa famosa.” Silenzio lungo.
“Volevo scusarmi.”
“Di cosa?” disse Maya. “Di avermi dato quello che volevo?” “Di averti fatto dimenticare cosa volevi davvero.”
Maya rise—un suono che conteneva tutto il dolore del mondo ma anche una specie di sollievo. “Sai
qual è la cosa più perversa? Che ha funzionato. Il tuo algoritmo mi ha data l’unica cosa di cui avevo davvero bisogno: la prova che esistevo. Anche se era costruita su bugie.”
“Posso venirti a trovare?” “Perché?”
“Perché credo che insieme potremmo capire come smettere di essere quello che siamo diventati e ricominciare a essere quello che eravamo prima di dimenticarcelo.” “E se scoprissimo che non c’è più niente da recuperare?”
“Anche quello. Almeno lo scopriremmo insieme.”
- La geometria dell‘amore
David arrivò a Milano con due valigie e la sensazione di aver appena saltato nel vuoto senza paracadute. Trovò Maya nel suo studio di Porta Romana, circondata da quadri che erano la negazione di tutto quello che aveva mai postato: violenti, onesti, impossibili da monetizzare.
“Benvenuto nel mondo reale,” gli disse Maya. “È più brutto di quello che sembra online, ma almeno non mente.”
David guardò i quadri e capì che Maya Chen—quella vera—era un’artista devastante. Ma era anche più fragile, più disperata, più pericolosamente vulnerabile di quanto i suoi post perfetti avessero mai suggerito.
“Devo confessarti una cosa,” disse Maya. “Non sono la vittima innocente che pensavi.” “Io non ho mai pensato che fossi innocente.”
“Ho sempre saputo cosa stavo facendo. Ogni post, ogni lacrima, ogni momento di vulnerabilità condivisa—era tutto calcolato per massimizzare l’effetto emotivo. Non sono stata manipolata dal tuo algoritmo. L’ho usato per manipolare altre persone che si fidavano di me.”
David la guardò senza giudicare. Forse perché non poteva—aveva fatto la stessa cosa, solo dal lato opposto dello schermo.
“Anch’io ho sempre saputo che stavo costruendo una macchina per distruggere l’attenzione umana e trasformarla in profitto. Non me ne sono mai fatto un problema finché non ho visto cosa faceva a persone come te.”
“Quindi siamo due mostri che si sono trovati?”
“Siamo due persone che hanno dimenticato come essere umane e ora stanno cercando di ricordarselo.”
Si guardarono con l’onestà brutale di due complici che si confessano dopo il crimine. “Cosa facciamo ora?”
“Non lo so. Ma lo scopriamo insieme.”
Si amarono lentamente, con la cautela di chi sa che l’amore può essere performato e quindi ha paura di sentirlo davvero. Non era romantico—era qualcosa di più raro e necessario: due persone che si riconoscevano nella reciproca ferita e decidevano di condividerla invece di negarla.
David si trasferì a Milano e insieme aprirono un centro che chiamarono “Digital Recovery.” Non per demonizzare la tecnologia o per tornare a un passato che non esisteva più, ma per aiutare le persone a capire quando stavano usando gli schermi per fuggire da se stesse.
“Il problema non sono i social media,” spiegava Maya nei loro workshop. “Il problema è dimenticare perché li usiamo e per chi.”
“La tecnologia amplifica quello che siamo già,” aggiungeva David. “Se siamo insicuri, ci rende più insicuri. Se siamo soli, ci rende più soli. Se siamo dipendenti dal giudizio altrui, ci trasforma in macchine per generare consenso.”
Elena chiuse l’agenzia non per redenzione, ma per stanchezza. Aveva cinquant’anni e aveva dimenticato cosa significasse voler qualcosa per se stessa invece che per i bilanci trimestrali.
Comprò una casa con giardino e adottò Lucia, una bambina di sette anni che era cresciuta in orfanotrofio senza mai aver toccato uno schermo. Elena le insegnò a dipingere con le dita prima ancora che imparasse a leggere.
“Perché non posso avere un telefono come gli altri bambini?” chiese un giorno Lucia. “Perché voglio che tu impari a essere felice senza che nessuno te lo confermi,” rispose Elena. “È difficile?”
“È la cosa più difficile del mondo. Ma è anche l’unica che vale davvero la pena imparare.
- Il peso della verità
Cinque anni dopo, Maya Chen esiste in modo diverso.
Ha centomila follower che la seguono non per i quadri—quelli li vende in una piccola galleria di Porta Romana a persone che li comprano perché li amano, non perché li hanno visti online. La seguono perché ha trasformato il suo Instagram in qualcosa di mai visto prima: un diario pubblico dell’imparare a vivere senza recitare.
David dirige un centro di ricerca che studia l’impatto psicologico della tecnologia. Non per eliminarla— sarebbe impossibile e inutile—ma per capire come progettare sistemi che amplificano la parte migliore della natura umana invece che quella peggiore.
Elena ha cinquantadue anni e dipinge acquerelli che poche persone comprano perché rappresentano la felicità quotidiana invece del dolore che si vende meglio. Vive dei suoi risparmi e non è mai stata più ricca.
Lucia ha dodici anni e sa come essere se stessa online e offline con la stessa naturalezza. È cresciuta sapendo che l’identità non è una performance ma un processo, non un prodotto ma un percorso infinito di scoperta.
Ma non tutto si è risolto bene, perché la vita non è un racconto con il lieto fine.
Rashida è ancora a Dhaka, ora con ventidue anni e quattro figli. Gestisce ancora account fake per sopravvivere, ma ora guadagna quindici dollari al giorno. Ha scritto un messaggio a Maya che è finito nella cartella spam: “Sono felice che tu sia riuscita a uscirne. Io non posso. Ho una famiglia da sfamare. Ma grazie per avermi fatto credere, almeno per un po‘, che esistesse un mondo dove essere se stessi fosse economicamente sostenibile.”
Maya non l’ha mai ricevuto.
Elena non ha mai saputo se la sua scelta di chiudere l’agenzia sia stata coraggiosa o egoista. Trecento artisti hanno perso il loro rappresentante, cinquanta dipendenti il loro lavoro. Qualcuno di loro si è rovinato economicamente e non se ne è ancora ripreso.
David scopre ogni giorno che i suoi algoritmi continuano a funzionare, gestiti da colleghi che non si pongono le sue domande morali. Milioni di persone sviluppano dipendenza digitale usando sistemi che lui ha contribuito a perfezionare. Il suo centro aiuta migliaia di persone, ma i suoi algoritmi originali continuano a danneggiarne milioni.
È un bilancio in perdita che lo tormenta ogni notte.
Maya non è mai riuscita a rintracciare tutte le ragazze che l’avevano seguita e imitata negli anni da influencer. Sa che alcune stanno ancora cercando di vivere la vita che lei aveva solo recitato. Alcune si sono perse per strada. Una si è suicidata dopo aver provato a replicare una delle sue performance di vulnerabilità, e sua madre ha scritto a Maya una lettera che lei non ha mai trovato il coraggio di aprire.
Una sera, mentre cenano nel giardino della casa che hanno comprato insieme alle porte di Milano, Lucia fa una domanda che li ferma tutti:
“Ma voi siete felici?”
È una domanda che contiene tutto: il prima e il dopo, quello che si è salvato e quello che si è perso, quello che si è riparato e quello che resta per sempre rotto.
Maya guarda David, Elena, Lucia. Guarda la vita che hanno costruito sulle macerie delle loro illusioni perdute.
“Siamo felici adesso,” dice Maya. “In questo momento, seduti qui, con le lucciole che si accendono nel buio e te che ci fai domande difficili, siamo felici. Non so se lo saremo domani. Non so se lo eravamo ieri. Ma questo momento vale tutti i momenti sbagliati che ci hanno portato qui.”
“Come fate a saperlo?”
“Perché non stiamo fingendo,” dice David.
“E perché non abbiamo paura di non esserlo,” aggiunge Elena.
“E perché anche quando non siamo felici, sappiamo perché,” conclude Maya. Lucia sorride. “Va bene. Posso essere triste quando voglio?”
“Puoi essere tutto quello che vuoi,” dice Elena. “Basta che sia vero.”
Il vento muove le foglie del giardino, e per un momento sono solo quattro persone che si vogliono bene in un mondo complicato, senza telecamere, senza pubblico, senza nessuno che li guarda tranne le stelle.
È il momento più bello della loro vita, e nessuno lo documenta. È perfetto così.
Epilogo
Milano, dieci anni dopo
Il centro che Maya e David hanno fondato ha aiutato cinquemila persone a sviluppare un rapporto più consapevole con la tecnologia. Ma David sa che per ogni persona che salvano, i suoi vecchi algoritmi ne danneggiano diecimila. È un calcolo che lo accompagna ogni giorno, il prezzo di aver costruito qualcosa di troppo potente per essere fermato.
Maya espone i suoi quadri in una galleria che si chiama “Cose Vere.” I prezzi sono accessibili perché crede che l’arte debba curare, non impressionare. Chi li compra li tiene per sempre.
Elena ha pubblicato privatamente un libro: “Lettere alla figlia che ho adottato troppo tardi.” Ne ha stampate solo cento copie, una per ogni anno che ha perso a vendere sogni invece di vivere i propri. Lucia lo ha letto e ha pianto per una settimana, dicendo che è il regalo più bello che abbia mai ricevuto.
Lucia ha diciassette anni e studia informatica e filosofia. Vuole costruire tecnologie che aiutino le persone a essere più umane, non meno. È la prima generazione che è cresciuta sapendo distinguere tra progresso tecnologico e progresso dell’anima.
Rashida ha quaranta anni e gestisce un piccolo centro di formazione digitale a Dhaka. Insegna ai giovani “come usare i social media senza esserne usati.” Guadagna abbastanza per vivere dignitosamente e ha trasformato i suoi anni di manipolazione forzata in educazione alla libertà.
Maya le ha finalmente scritto, dopo aver trovato il suo messaggio in una vecchia cartella spam. Ora si sentono ogni mese, due donne che hanno imparato a riconoscersi attraverso gli oceani e le differenze.
Una sera d’autunno, mentre guardano il tramonto dal giardino—lo stesso tramonto che Maya dipingeva da sola dieci anni prima—Lucia fa l’ultima domanda:
“Credete che il mondo sia diventato un posto migliore?”
Maya, David ed Elena si guardano. Hanno abbastanza anni per sapere che il mondo non migliora in modo lineare, che ogni generazione deve affrontare nuove versioni degli stessi problemi eterni, che la perfezione non è un traguardo ma un’illusione.
“Non lo so,” dice Maya. “Il mondo è troppo grande e complicato per avere una risposta semplice. Ma noi siamo diventati persone migliori. E se ognuno di noi migliora un po’, forse il mondo diventa sopportabile.”
“E se non dovesse bastare?”
“Allora almeno avremo provato,” dice David. “È tutto quello che possiamo fare, ed è tutto quello che dobbiamo fare.”
“E avremo amato,” aggiunge Elena. “Alla fine, forse è tutto quello che conta davvero.”
Lucia annuisce. È cresciuta senza illusioni ma non senza speranza, sapendo che la vita è complicata e che le complicazioni possono essere bellissime se condivise con persone che ti amano nonostante tutto, anzi proprio per tutto.
Quella notte, ognuno di loro torna ai propri rituali: Maya dipinge un tramonto che nessuno fotograferà mai, David scrive codice che aiuterà qualcuno a sentirsi meno solo, Elena compone una lettera a Lucia che leggerà quando sarà più grande, Lucia disegna la famiglia che ha scelto e che l’ha scelta.
Non sono perfetti. La perfezione è un’invenzione di chi non ha mai rischiato niente per amore. Ma sono veri. Spietatamente, coraggiosamente, teneramente veri.
E in un mondo di finzioni sempre più sofisticate, essere veri è l’unica rivoluzione che funziona. È l’unica rivoluzione che dura.
È l’unica rivoluzione che salva. Fine
“L‘Algoritmo del Cuore“ è dedicato a tutti coloro che stanno ancora imparando la differenza tra essere visti ed essere amati, tra condividere la gioia e venderla, tra l‘arte e il contenuto.
È un romanzo sull‘amore che nasce dalla condivisione delle ferite.
È un romanzo sulla famiglia che si costruisce con la colla dell‘onestà.
È un romanzo sulla tecnologia che ci cambia e su come possiamo cambiarla a nostra volta. È un romanzo che non promette felicità, ma promette verità.
È un romanzo che non offre soluzioni facili, ma offre compagnia nel cammino.
È un romanzo che sa che alcune cicatrici non scompaiono mai, ma possono diventare la parte più bella di noi.
È il romanzo che dovevamo scrivere. È il romanzo che vale la pena vivere.
È il romanzo che ci ricorda come tornare a casa da noi stessi.