Gli occhi di Alice avevano qualcosa di speciale. Non era il colore, né la forma, era quella scintilla di meraviglia che si accendeva per ogni piccola scoperta. Il suo sguardo si illuminava davanti al volo di una farfalla, si perdeva nei disegni delle nuvole nel cielo, si chiudeva in un sorriso nel respirare il profumo di un fiore appena sbocciato.
Un giorno Alice ricevette in regalo il suo primo smartphone. All’inizio lo usava come una finestra magica sul mondo, un nuovo strumento per catturare e condividere le sue meraviglie quotidiane. Ma piano piano, quasi impercettibilmente, quella finestra iniziò a trasformarsi in uno specchio, e poi in una prigione.
Non se ne accorse subito. All’inizio erano piccoli cambiamenti: invece di osservare direttamente il tramonto, lo guardava attraverso lo schermo del telefono, pensando già a quale filtro applicare. Le conversazioni con gli amici si trasformarono in brevi messaggi intercalati da emoji. Le risate spontanee divennero “lol” digitati con le dita.
Quella mattina, nel piccolo caffè all’angolo dove si fermava ogni giorno, Alice fissava la tazza fumante davanti a sé. Il profumo del caffè appena preparato fluttuava nell’aria, ma le sue mani erano troppo occupate a cercare l’inquadratura perfetta. Prima uno scatto dall’alto, poi di lato, un altro con lo sfondo sfocato. La schermata degli hashtag era diventata più familiare del menu delle bevande. Mentre scorreva le opzioni – #coffeelovers #morningvibes #coffeetime – il vapore si dissolveva lentamente nell’aria. Quando finalmente posò il telefono e portò la tazza alle labbra, il caffè era freddo. Lo sorseggiò comunque, ma non ne sentì il sapore. Era troppo distratta a controllare quanti like stava ricevendo la foto. In quel momento, nell’assaporare quel caffè ormai freddo, si rese conto che non ricordava nemmeno più quale fosse il suo gusto preferito. Non quello vero, almeno. Conosceva perfettamente quale foto di caffè riceveva più like, ma aveva dimenticato il piacere semplice di una pausa caffè senza filtri.
Quello che Alice non sapeva era che ogni sua azione online veniva registrata, analizzata, categorizzata. Il suo telefono, anche quando sembrava spento, continuava a raccogliere dati: le sue conversazioni, i luoghi che visitava, persino le pause tra una parola e l’altra nei suoi messaggi. Tutto finiva in enormi server situati in una terra di orchi, dove algoritmi sempre più sofisticati costruivano un profilo dettagliato dei suoi desideri, delle sue paure, delle sue debolezze.
I suggerimenti che riceveva sembravano magicamente cuciti su misura per lei. Una danza ipnotica di immagini, prodotti e contenuti che apparivano proprio quando ne sentiva il bisogno – o almeno, quando credeva di sentirlo. Ma invece di ampliare i suoi orizzonti, questi suggerimenti la stavano lentamente rinchiudendo in una bolla sempre più stretta. I suoi interessi, un tempo vasti e imprevedibili come i pensieri di una mente libera, si stavano restringendo giorno dopo giorno. L’algoritmo decideva cosa fosse “rilevante” per lei, filtrando il mondo attraverso una lente sempre più selettiva. Come un abito che si stringe lentamente, impercettibilmente, fino a limitare i movimenti senza che ce ne accorgiamo, la sua curiosità si stava adattando allo spazio ristretto che le veniva concesso.
Le pubblicità che vedeva, i post che le apparivano nel feed, persino le notizie che leggeva – tutto era accuratamente selezionato non per informarla o intrattenerla, ma per mantenerla in uno stato di costante engagement, come una moderna Alice intrappolata in un tea party digitale senza fine.
La sua capacità di meravigliarsi stava morendo, sostituita da una prevedibile routine di scroll infiniti e notifiche. Non c’era più spazio per il nonsense creativo del Cappellaio Matto, solo il nonsense calcolato degli algoritmi. Il Brucaliffo non faceva più domande enigmatiche – ora era lei a rispondere docilmente ai sondaggi online.
Un giorno Alice si guardò allo specchio (quello vero, non quello dei selfie) e non riconobbe il proprio sguardo. Gli occhi che un tempo brillavano di curiosità erano ora opachi, sempre alla ricerca del prossimo stimolo digitale. La bambina che si meravigliava era morta, sostituita da una consumatrice perfettamente profilata.
La vera Alice non avrebbe mai seguito il Bianconiglio in un buco senza chiedersi “perché?” – avrebbe prima cercato recensioni online, controllato il percorso su Google Maps, postato una storia chiedendo opinioni ai follower.
Forse è questo il vero paese delle meraviglie moderno: un luogo dove la meraviglia stessa è stata addomesticata, quantificata e venduta al miglior offerente. Un luogo dove non c’è più bisogno di decapitare nessuno, perché siamo noi stessi a offrire volontariamente la nostra testa – e con essa, i nostri pensieri, sogni e desideri – al re e alla regina di questo nuovo regno digitale.
E così, mentre il Gatto del Cheshire svanisce, lasciando solo il suo ghigno, anche la nostra capacità di stupirci spontaneamente scompare, lasciando solo una pallida emoji sorridente sullo schermo di un telefono che non dorme mai.