I tempi d’attesa della cura

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2 Ottobre 2024

di Andrea Vannucci¹ e Giorgio Banchieri²

¹Membro CTS ASIQUAS, Docente DiSM, Università Siena, membro CD Accademia di Medicina, Genova

²Segretario Nazionale ASIQUAS (Associazione Italiana per la Qualità della Assistenza Sanitaria e Sociale) Docente DiSSE, Università “Sapienza”, Roma

Nel 2023 il 7,6% della popolazione ha dovuto rinunciare alle cure mediche per problemi economici, per lunghi tempi d’attesa o difficoltà di accesso di altro genere, in aumento rispetto al 7,0% del 2022. Questo incremento corrisponde a circa 372.000 persone in più, portando il totale a circa 4,5 milioni di cittadini e – sostiene ISTAT – sarebbe dovuto a liste d’attesa troppo lunghe. Già nel 2019, prima della pandemia, si stimava che circa 1,5 milioni di italiani avevano dovuto rinunciare alle cure per questo motivo, ma nel 2023 il numero è quasi raddoppiato, arrivando a 2,7 milioni di cittadini.

C’è non poca confusione quando si parla di tempi di attesa, molta insoddisfazione dei cittadini e un diffuso senso d’allarme. Quello che possiamo sostanzialmente considerare un indicatore di inefficienza del Servizio Sanitario Nazionale non costituisce però necessariamente in tutti i casi un pericolo o un danno per la salute. Se attendere causa spesso incertezza ed apprensione nella vita di tutti i giorni, questi sentimenti sono amplificati quando ciò che aspettiamo ha a che vedere con la nostra salute.

Per orientarsi bene occorre però subito rimarcare le differenze tra tre diverse situazioni: l’attesa di un intervento chirurgico da programmare senza urgenza, la richiesta del nostro medico per fare un accertamento diagnostico per il sospetto di una nuova malattia e, infine, quando tali accertamenti servono a controllare nel tempo l’andamento di una malattia già nota ed in cura. Queste tre condizioni, che troppo spesso vengo considerate nel loro insieme, hanno genesi molto diverse e come tali richiedono interventi diversi. Anche se sempre si tratta di una sproporzione tra domanda ed offerta, le azioni da intraprendere per correggere l’uno o l’altro dei due fattori cambiano.

Domanda ed Offerta

Molti Paesi hanno tentato di affrontare il problema delle liste d’attesa adottando diverse politiche con risultati contrastanti.
Affrontare la domanda significa in prima battuta intervenire sull’appropriatezza degli accertamenti diagnostici che i medici chiedono per i loro pazienti. Appropriatezza significa fare la cosa giusta al paziente giusto nel momento giusto. È vero che ci sono conoscenze, raccomandazioni cliniche e linee guida a cui fare riferimento ma non sempre è semplice riuscire a farlo bene e un ragionevole numero di esami, anche se poi si rilevano inutili, è prudente tollerarla.  Questa è comunque una questione fondamentalmente in mano ai clinici. Ci sono stati tentativi di intervenire da parte dei decisori politici e dei manager delle aziende sanitarie ma si sono rivelati spesso maldestri.

A fine 2015 un decreto del Ministero della Salute, allora ministra Beatrice Lorenzin, elencò le condizioni di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza delle prestazioni di varie branche specialistiche. L’obiettivo mirava a migliorare l’appropriatezza e ridurre il volume delle prestazioni diagnostiche e quindi anche i tempi di attesa. Le reazioni del mondo medico furono vivaci. Pochi mesi dopo, nel luglio 2016, furono presentati i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), cioè i livelli “minimi” quantitativi e qualitativi delle prestazioni sanitarie che le Regioni devono assicurare. Ampia parte dei contenuti dei nuovi LEA fu il risultato di una concertazione tra Ministero della Salute e FNOMCeO, la Federazione Nazionale dei Medici di Famiglia. Il Decreto Lorenzin venne a quel punto “ritirato” e con questo niente più sanzioni per medici e maggiore libertà prescrittiva. Venne presentato anche un “Manifesto sull’appropriatezza”, realizzato unitamente dal Ministero della Salute e dalla FNOMCeO, diffuso poi in tutti gli studi medici, ospedali e sedi delle ASL per informare i cittadini sulle novità introdotte dai nuovi LEA e sul valore dell’appropriatezza… Ad anni di distanza possiamo osservare quanto scarso ne sia stato l’impatto e capire il perché non sarebbe una perdita di tempo.

I tentativi sul fronte dell’offerta per aumentare la produttività degli erogatori sono sempre ed ovunque stati sostanzialmente quelli di utilizzare finanziamenti mirati per aumentare la produttività e quindi usare incentivi monetari per il personale sanitario per remunerare le ore aggiuntive di lavoro; introdurre schemi di finanziamento delle strutture “pay-for-performance” (p4p) basati sul numero effettivo di pazienti trattati.
La prima misura è stata la più utilizzata nei Paesi OCSE ma non ha mai portato ai risultati sperati. Questi programmi consistevano spesso in erogazioni temporanee di fondi che miglioravano la situazione solo nel breve termine.

La legge sulle Liste di attesa del Governo italiano

Recentemente l’attuale Governo ha promulgato una legge sulle liste d’attesa che prevede tre linee di intervento: raccogliere informazioni per avere un quadro più coerente tra esperienze dei cittadini e le statistiche oggi disponibili; rafforzare i CUP, aumentare gli orari dei servizi impiegando anche le prestazione in libera professione intramoenia; incrementare il personale sanitario, stabilendo sia allentamenti degli attuali limiti di spesa per nuove assunzioni che incentivi per il personale in servizio. Il proposito è quello di stimolare l’offerta di prestazioni incentivando il personale sanitario con l’introduzione di un’imposta sostitutiva dell’Irpef su tali prestazioni pari al 15%; il costo della misura viene stimato in circa 250 milioni di euro.

Il decreto è stato accompagnato dagli annunci pieno di ottimismo da parte del Ministro competente  e da altri rappresentanti della maggioranza di Governo, ma  la retorica a volte rischia di finire in farsa: leggendo con attenzione il testo di legge in realtà il piano assunzioni si limita ad assunzioni al ministero della Salute: un Direttore Generale, 3 Direttori e 20 impiegati per verificare che le Regioni facciano quanto previsto nella Legge approvata e ad assunzioni in deroga al blocco ed effettuate con fondi del Ministero (4 milioni), cioè da trovare all’interno del Fondo Sanitario Nazionale così com’è ora e da tutti giudicato “magro” in assoluto e in rapporto al PIL.  Si annuncia che il superamento del tetto nelle assunzioni di personale sanitario sarà pari al 15%, ma il riferimento è al 15% dell’incremento già previsto dal cosiddetto “Decreto Calabria”, che era del 5%. Di conseguenza il superamento del tetto è pari allo 0,75%… Infine chi lavorerà per la riduzione delle liste di attesa pagherà solo il 15% di tasse. Questo comporterà un minor gettito di 580 milioni che sarà ripianato attraverso una “diminuzione di pari importo” del FSN.

Non è detto che poi l’intervento sul personale sanitario riuscirà. Ci sono molti dubbi in merito. La crisi del personale sanitario è grave, complessa e destinata a durare. Non è solo questione di numeri ma anche di motivazione. Per insipienza, ignavia e superficialità di tutte le parti, anche dei professionisti, assistiamo ad un deterioramento delle condizioni di lavoro che mina una storica affezione all’impiego nelle strutture pubbliche. C’è scetticismo sulla possibilità che si trovi una soluzione. In realtà la soluzione ci sarebbe, ma bisogna lavorare subito ad un’innovazione “partecipata”, senza la quale immettere nuove risorse sarà un intervento futile.

Misurare le liste d’attesa

Concentriamoci sulle liste di attesa per gli accertamenti diagnostici, che è poi la materia di cui si occupa la Legge recente. Se, come accade oggi, abbiamo difficoltà di mappatura del fenomeno, non conoscendo in modo approfondito i dettagli utili, difficilmente potremo correggerlo.

L’importanza di raccogliere informazioni più dettagliate è giustamente uno degli obiettivi del DL 73/2024, ci riusciremo? L’uso sistematico, su scala nazionale, della ricetta dematerializzata e del fascicolo sanitario elettronico, come previsto anche nel PNRR, sarà l’arma vincente? Le grandi differenze regionali di oggi verranno superate domani? L’esito della partita non è scontato e le differenze e i ritardi delle varie regioni potrebbero limitare le probabilità di successo.

Un’esperienza della Regione Toscana, datata 2019, mostrò che solo il 70% degli accertamenti richiesti dai medici entravano nelle agende dei Centri Unificati di Prenotazione (CUP) delle aziende sanitarie e non ci sono ragioni per pensare che così non avvenga in molti luoghi.

Se gli Assessorati regionali quando misurano le attese fanno riferimento ai soli pazienti registrati dai CUP il fenomeno rischia di essere sottostimato rispetto alla realtà. Sfuggono alla misurazione coloro a cui viene proposta una prima visita in tempi e luoghi che non accettano e si organizzano altrimenti o quelli a cui viene comunicato che l’Agenda degli appuntamenti è piena e momentaneamente bloccata e rimangono al palo.

Sempre in Toscana venne adottato un nuovo indicatore, poi riconosciuto anche a livello ministeriale: il catchment index, ovvero il rapporto fra il numero di persone con ricetta per una data prestazione che entrano in CUP e il numero totale di ricette formulate per quella prestazione nello stesso arco temporale.  In letteratura scientifica si definisce come fisiologico un 15% di perdita di casi. Sono quei pazienti che dopo la richiesta del loro medico decidono di andare direttamente da un professionista o da una struttura privata di loro fiducia oppure di rinunciare alle cure, come accade ai più poveri. Quando però il catchment Index scende sotto il 60%, ed in alcune Regioni accade, la situazione è davvero critica e richiede drastici interventi.

Affidando ad AGENAS, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, il monitoraggio dei tempi di attesa il Governo è convinto che misureremo meglio la situazione reale ma la persistente fragilità dei flussi informativi provenienti dalle varie Regioni rimarrà, non sappiamo fino a quando, un fattore che allontanerà l’obiettivo. Se i meccanismi di raccolta dei dati non saranno solidi ed attendibili, oggi ancora non lo sono, il successo dell’operazione sarà improbabile.

 

Cosa è possibile fare

Ci sono state esperienze che hanno dimostrato che il problema può essere anche gestibile, si legga l’interessante libro di Carlo Tomassini “Liste d’attesa in sanità – la soluzione del Open Access” edito dal Pensiero Scientifico che propone come modello da applicare quanto fu realizzato a Pisa alcuni anni fa, così come esistono strategie generali che possiamo considerare “buone pratiche” per il contenimento dei tempi di attesa.  Tra queste, i programmi di telemedicina, con l’Implementazione di tecnologie di telemedicina per eseguire alcuni esami a distanza o per la consulenza tra specialisti, l’Integrazione dei servizi, creando reti di collaborazione tra diversi Centri Diagnostici per ottimizzare l’uso delle risorse disponibili e la gestione della domanda, implementando sistemi di priorità basati sulla gravità della condizione per ridurre i tempi di attesa per i casi più urgenti e introducendo un triage dei pazienti, così come si fa nei pronto soccorsi per stabilire la priorità d’intervento.

Teniamo bene a mente anche che ogni logica “short time” deve essere evitata, perché è di cambiamenti organizzativi e gestionali duraturi ciò di cui che abbiamo bisogno. E anche che non sono solo questioni tecniche, ma anche sociali e politiche, perché hanno a che vedere con il rapporto tra i cittadini e uno Stato con servizi in grado di garantire e promuovere una società civile, dignitosa e solidale.

Nella società contemporanea fiducia, e quindi reputazione, sono elementi determinanti per i servizi pubblici. Il Sistema Sanitario, non sfugge a queste dinamiche e se lo vogliamo salvare, ed è un imperativo farlo, vanno introdotti i cambiamenti che servono e che diano evidenza che c’è uno Stato che crede ancora che si tratti di un bene comune di primaria importanza.

 

Contatti:

Giorgio Banchieri, 335 7710674, giorgio.banchieri@gmail.com

Andrea Vannucci, 335 1599320,  andreagg.vannucci@gmail.com

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