Colgo nei commenti che il mio ultimo articolo ha suscitato un interesse concreto verso temi scomodi e fondanti, anche se forse poco dibattuti con chiarezza.
A proposito del rinvio del nuovo Nomenclatore tariffario delle prestazioni specialistiche, evidenzio che il tema di attualizzare le prestazioni specialistiche e le relative tariffe (progressivamente la scienza e la ricerca ci mettono a disposizione novità importanti attese dai pazienti o economie di scala su alcune prestazioni erogate su grandi numeri) è aperto già da alcuni anni e il nuovo Nomenclatore tariffario, rinviato per la seconda volta al 1 gennaio 2025, non è il frutto alchemico di chissà quale pensiero, ma il frutto di tavoli di analisi e lavoro che si sono già espressi dopo mesi di lavoro a cui oggi pare si aggiungeranno ulteriori tavoli, e così via.
Quanto alle risorse da destinare agli erogatori privati accreditati, per acquistare più prestazioni nel tentativo di ridurre i tempi di attesa, il mio intento non è certo dissertare sulla dicotomia tra sanità pubblica e sanità privata. Per quello c’è già un nutrito dibattito spesso “ideologico” in sedi diverse da quelle tecniche che ci competono.
Tuttavia, l’attenzione suscitata dalle mie riflessioni, rafforza l’idea che ogni istituzione/azienda, a seconda della propria natura pubblica, privata no profit o profit, persegue le proprie legittime finalità. Chiaro che la sanità privata profit, che in Italia ormai si è organizzata in larga parte in grandi gruppi imprenditoriali, persegue anche la redditività e l’espansione (talvolta anche oltre confine) della propria attività, ma il tema è se la governance pubblica debba assecondare questo obiettivo o invece fissare regole di ingaggio che affrontino con rigore metodologico le inevitabili influenze di lobby o portatori di interesse.
È vero che molte prestazioni sanitarie in Italia oggi vengono erogate dal privato accreditato, è vero anche che a parità di prestazioni gli oneri posti in capo alla sanità pubblica sono molto più ampi. Si pensi, a titolo di esempio, al tema della “prevenzione”, autentico bene pubblico non tariffato completamente sulle spalle delle agenzie pubbliche della salute. Si pensi alla salute mentale e alle dipendenze in cui, fatte salve le prestazioni pagate a retta giornaliera nelle strutture residenziali in cui gestori privati sono aumentati grandemente negli ultimi due decenni, spetta alle aziende sanitarie pubbliche l’onere della presa in carico dei pazienti e di organizzazione della rete. O ancora si pensi al tema della sanità penitenziaria di monopolio della sanità pubblica. E gli esempi potrebbero proseguire numerosi.
Ora, se usciamo da una logica meramente prestazionale, in cui è evidente che le aziende sanitarie pubbliche hanno grandi oneri e poche risorse, trovo che invocare la fine di tetti di spesa per i privati costituirebbe in grave vulnus per la tenuta del sistema sanitario nazionale. Se le risorse disponibili, limitate per definizione, escono per comprare più prestazioni senza modificare i modelli organizzativi tempo che saremo davanti a un pannicello caldo con benefici di brevissimo periodo. Anche qui il tema della governance è centrale.
Da più parti viene evocata la bontà di una sana competizione tra pubblico e privato. È indubbio che il miglioramento delle performances passa anche attraverso una sana competizione. Faccio notare però che l’evocazione di una sostanziale parità tra pubblico e privato cozza con evidenti disparità. Cito a titolo di esempio il caso del personale sanitario pubblico che cessa dal servizio o va in pensione (e che l’azienda pubblica non può più reclutare in altro modo per una serie di norme che lo vietano, a meno che l’interessato non svolga servizio gratuito volontario), personale che prontamente viene intercettato da strutture private che lo reclutano con ogni forma di lavoro flessibile e disponibile nell’ordinamento e senza dover sottostare a procedure di evidenza pubblica. E ancora penso a gli ospedali privati accreditati che reclutando i propri medici in base a norme che poi non consentono al personale di maturare i requisiti per partecipare a concorsi pubblici per ruoli apicali.
Quanto agli obblighi che valgono per i privati, è ovvio che tali obblighi sono cogenti e ben presenti anche nelle aziende pubbliche: obblighi del datore di lavoro, tutela della privacy, certificazioni di qualità, fascicolo sanitario elettronico, adesione ai Cup regionali, etc… Nulla viene risparmiato alle aziende sanitarie pubbliche e ai loro Direttori Generali.
In definitiva, credo che sia ora di chiarezza di intenti. I tetti di spesa dei privati servono a evitare che la finanza pubblica esploda. L’obiettivo dell’equilibrio di bilancio per i Direttori Generali delle aziende sanitarie pubbliche, pena la decadenza, ha lo stesso obiettivo. Le risorse sono limitate e quelle che vengono reperite tra le pieghe dei bilanci dello stato e delle regioni devono essere reinvestite in nuovi modelli organizzativi, nel rafforzare gli organici pubblici perché non è accettabile che si dica semplicemente “il pubblico non ce la fa” se sottoposto a vincoli che devono essere profondamente rivisti, per esempio sui tetti di spesa del personale su cui si inizia a ventilare qualche novità positiva.
In tutto questo i decisori e i programmatori possono avere un ruolo determinante, magari iniziando a cambiare qualche regola rigida che oggi impedisce alle aziende sanitarie pubbliche di “competere” davvero in condizioni di parità.
Parafrasando Dante: il nostro SSN “governance va cercando ch’è si cara”.