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In queste settimane il dibattito nel mondo sanitario si arricchisce di due nuovi capitoli: quello legato ai fondi stanziati dal governo per acquistare maggiori volumi di prestazioni dai privati, allo scopo di abbreviare i tempi di attesa, data l’insufficienza del sistema pubblico a far fronte alla domanda; e quello del rinvio al prossimo anno dell’entrata in vigore del nuovo Nomenclatore tariffario delle prestazioni specialistiche. I due capitoli sono paradigmatici di come su argomenti estremamente tecnici passino informazioni ai cittadini che rischiano di risultare distorte.

Nel nostro paese, purtroppo, il dibattito sulla sanità assume spesso contorni “ideologici” (in particolare tra sanità pubblica e sanità privata) che non giovano a una corretta conoscenza dei problemi e alle possibili soluzioni

È noto che le aziende sanitarie pubbliche sono in difficoltà soprattutto per una mancanza di personale sanitario la cui responsabilità principale è ascrivibile a una programmazione (meglio sarebbe dire “a-programmazione”) di decenni pregressi. Il tetto di spesa per il personale autorizzato per le aziende sanitarie pubbliche, dopo le deroghe previste per il Covid e di fatto ora rientrate, è pari al costo sostenuto nel 2004 ridotto dell’1,4%. Oggi tale limite potrà essere rivisto a seguito dell’applicazione di una metodologia per una corretta quantificazione del personale sanitario la cui attuazione è al di là da venire.

Oltre al limite economico il tema è la carenza di medici specialisti e infermieri su cui sono stati versati fiumi di inchiostro, ma la cui responsabilità in buona misura è dovuta anche a logiche di spending review, tanto di moda qualche anno fa, che hanno comportato risparmi draconiani anche sul numero di borse di studio delle scuole di specialità tanto che oggi trovare un igienista, uno psichiatra o un urgentista è davvero complicato. Il tema non è la mancanza di medici in Italia, anche se spesso l’attenzione viene sviata su “numero chiuso sì” o “numero chiuso no” nelle facoltà di medicina. Il tema è la carenza di medici specialisti in particolare in alcune discipline diventate meno attrattive rispetto ad altre (si pensi ai bandi nella specialità di medicina d’urgenza, in cui si formano i medici di pronto soccorso, i cui posti vengono coperti solo parzialmente).

In questo contesto sono intervenuti provvedimenti interessanti, come il decreto Calabria nato in epoca Covid, che consente di assumere gli specializzandi in un percorso condiviso con le università. Ma non basta. Per questo le aziende sanitarie pubbliche arrancano tra posizioni che non riescono a coprire e cooperative che svenano i bilanci aziendali; e anche le aziende più attrattive che potrebbero assumere di più hanno il famoso vincolo della spesa 2004 ridotta dell’1,4%. In questo contesto un intervento sui tempi di attesa avrebbe richiesto due interventi significativi: il primo lavorare sulla appropriatezza delle prestazioni erogate. In sanità è noto ai tecnici il meccanismo per cui un aumento dell’offerta fa aumentare la domanda di prestazioni che pare non saturarsi mai.
Il beneficio di aggiungere volumi di prestazioni si esaurisce in breve tempo se non si governa la domanda attraverso i medici di famiglia e gli specialisti con un patto sull’appropriatezza delle prestazioni e su una urgente e indifferibile presa in carico dei pazienti cronici a cui “programmare” le prestazioni.
Ma in questa fase acquistare volumi aggiuntivi di prestazioni da privati significa non fare la cosa più logica, utilizzare i fondi per rimuovere almeno in parte il vincolo di spesa. Perché finanziare i privati e non consentire alle aziende pubbliche di assumere più personale? Il sistema pubblico ce la farebbe se fosse messo nelle migliori condizioni di agire. Spero che sia un tema che non venga dato per “perso”.

E qui veniamo al secondo capitolo, quello che riguarda il rinvio dell’entrata in vigore del nuovo Nomenclatore tariffario delle prestazioni specialistiche al 2025 (si tratta già del secondo rinvio). Occorre una premessa. Il sistema di remunerazione a prestazione esiste dal 1992, con l’entrata in vigore dei decreti di riordino del Servizio sanitario Nazionale. Per chi ha memoria di quel periodo di profondi cambiamenti una cosa era chiara e dichiarata: le tariffe che remunerano i ricoveri (i DRG) e le prestazioni ambulatoriali e di laboratorio non sono il riconoscimento del costo sostenuto da ogni ospedale o ambulatorio o laboratorio per erogare quella prestazione, ma una valutazione media di assorbimento di risorse, umane e strumentali, per erogare quella particolare prestazione. Va da sé che le strutture particolarmente efficienti avranno dei margini, quelle inefficienti delle perdite. Inoltre il sistema dei costi medi ha determinato delle aree di attività particolarmente remunerative, talvolta prontamente abbandonate dai privati accreditati quando la tariffa si riduce, o aree in cui il sistema pubblico si fa carico di tutto con tariffe evidentemente ritenute di scarso interesse economico per i privati profit.

Ora, in questo quadro molte regole sono intervenute per evitare comportamenti “opportunistici” come selezionare le prestazioni più remunerative nella branca specialistica accreditata (per esempio se sono un privato accreditato per la diagnostica per immagini non posso fare TAC in accreditamento e in regime privato e le ecografie solo in regime privato).
Certo il sistema dei controlli deve essere rigoroso. Il privato accreditato lavora come fornitore “privilegiato” del sistema pubblico, con un rapporto assimilabile a concessionario di funzione pubblica. Sicuramente una posizione privilegiata, rispetto ai tanti soggetti privati che non sono riusciti ad accedere all’accreditamento con contratto con le regioni e che operano nel mercato puramente privato. Ora, questi soggetti privati accreditati, che fatturano alle regioni e che possono contare ogni anno su un budget sicuro di prestazioni, hanno di fatto invocato un rinvio del Nomenclatore tariffario in quanto non coprirebbe i costi di produzione. Ma non è compito dello Stato remunerare le eventuali inefficienze di terzi, e neanche venir meno all’obbligo di rivedere periodicamente le tariffe tenuto conto delle innovazioni (nuove prestazioni attese dai cittadini), dell’automazione soprattutto in ambito laboratoristiche che ha ridotto i costi, dell’attuazione dei Livelli Essenziali di Assistenza che tutto il sistema pubblico e privato accreditato deve avere al centro dell’azione.

È stato detto che il nuovo Nomenclatore tariffario avrebbe fatto diminuire le prestazioni e aumentare i tempi di attesa, invece è esattamente il contrario. Se una prestazione viene rimborsata meno all’erogatore, a parità di budget annuale, si erogano più prestazioni. Se poi una struttura privata accreditata ritiene le tariffe non congrue con i propri costi di produzione, può rinunciare al contratto con la Regione. I registri regionali delle strutture accreditate sono pieni di strutture private che attualmente non sono a contratto (e di fatto in “lista di attesa” per diventare fornitori del Servizio Sanitario Nazionale) e che potrebbero entrare in gioco.

Insomma è tempo di scelte strategiche chiare che abbiano come obiettivo una forte governance pubblica degli attori ed evitare che si allarghi la forbice tra sanità pubblica e privata a contratto. Se la bilancia delle risorse si sposta troppo dal settore pubblico, le regole di sistema vengono condizionate da sollecitazioni che rischiano di non essere sempre coincidenti con l’interesse comune.

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