
Le mie riflessioni sull’azione nell’era dei Language Model
Da tempo osservo come le parole abbiano preso il sopravvento sulle azioni nella nostra vita quotidiana, soprattutto nell’ambiente digitale. Social network, email, piattaforme e—sempre più—intelligenze artificiali generano continuamente dichiarazioni, risposte, propositi. Mi chiedo cosa rimanga dell’agire, quando tutto è ormai preceduto o sostituito da ciò che si afferma.
Scrivendo il saggio “Il Paese delle Parole”, racconterò questa sensazione, che è diventata una inquietudine costante: sembra che a forza di proclamare, postare, promettere, il rischio sia quello di accontentarsi solo dell’enunciato, come se dire bastasse a far accadere davvero le cose. Ed è ancora più evidente da quando i Language Model, questi algoritmi evoluti, sono in grado di produrre conversazioni convincenti, risposte articolate, consigli su misura, ventiquattr’ore su ventiquattro.
La mia attenzione non va alla tecnica in sé, ma a ciò che succede dentro di noi. Siamo ancora capaci di chiedere alla parola di essere promessa e impegno? O ci lasciamo magnetizzare dalla facilità con cui ogni gesto viene narrato, giustificato, anticipato da qualche testo? Mi accorgo che serve riportare densità al linguaggio, rischiare quella parte di fatica che spetta a chi vuole davvero trasformare il quotidiano, non solo dichiararlo agli altri o a se stesso.
Queste mie riflessioni non pretendono di offrire risposte definitive. Sono, piuttosto, una domanda aperta: nel tempo dei Language Model, quanto di quello che diciamo si traduce ancora in azione, e quanto rimane sospeso tra le righe? Scrivere, in fondo, mi aiuta a riconoscere questo nodo e a coltivare il desiderio che la parola torni ad essere prima di tutto un appuntamento con la realtà, da mantenere ogni giorno.
Giuseppe Orzati





















