
DAL NOSTRO INVIATO NEL FUTURO – Sembra di essere tornati al cineforum del Megadirettore Galattico. Sul palco, osannato da una folla di “veri credenti” e manager smarriti, sfila l’ultimo modello di Intelligenza Artificiale, presentato come il capolavoro assoluto che risolverà la crisi climatica, la fame nel mondo e, già che c’è, anche il problema dei calzini spaiati. In sala, 92 minuti di applausi scroscianti, tra lacrime di commozione e standing ovation.
Ma in fondo, seduto su una poltroncina in finta pelle umana, c’è lui: il rag. Ugo Fantozzi del ventunesimo secolo. Mentre tutti magnificano la “svolta epocale”, lui si china verso il vicino e, con un fil di voce carico di terrore e lucidità, sussurra la frase proibita: “Scusi, ma… per me, è una cagata pazzesca!”.
Apriti cielo. O meglio, apriti cloud.
Quando il consulente fa la figura del ragioniere
La scena fantozziana non è più una gag, ma la cronaca di una Waterloo digitale annunciata. Prendiamo il caso tragicomico di Deloitte Australia. Un team di consulenti, probabilmente in preda a un’overdose di entusiasmo da slide in PowerPoint, ha deciso di affidare un intero dossier strategico a un’AI generativa. Risultato? Un documento degno del miglior Azzeccagarbugli, infarcito di dati inventati, citazioni false e conclusioni che nemmeno un algoritmo sotto effetto di allucinogeni avrebbe partorito.
Il cliente, che per fortuna non era il Professor Guidobaldo Maria Riccardelli, se n’è accorto. E così, il capolavoro proiettato si è rivelato per quello che era: una pellicola di bassa qualità. La reputazione del colosso della consulenza? Macchiata. La fiducia nell’AI? Incrinata. Ma la colpa, ammettiamolo, non è del proiettore (l’AI), ma del proiezionista che ha abdicato al suo ruolo, credendo che il film si montasse da solo.
Le “Vergini candide” e i “Manager smarriti”: l’imbarazzo della scelta
Il pubblico del cineforum AI si divide in due grandi, disperate categorie. Da un lato, le “vergini dai candidi manti”, idealisti con gli occhi lucidi che vedono nell’AI la soluzione a ogni male dell’universo. Ignorano, o fingono di ignorare, che lo strumento in questione allucina più di un reduce dal Woodstock, riflette i nostri peggiori pregiudizi e, soprattutto, non “capisce” un’acca di quello che dice. Elabora statistiche, non significati.
Dall’altro lato, i “manager smarriti”. Si sentono come Fantozzi davanti alla corazzata: non capiscono, ma sentono la pressione sociale di dover applaudire per non sembrare retrogradi. Comprano “soluzioni AI” come si comprerebbe un biglietto della lotteria, sperando nel miracolo, per poi ritrovarsi con progetti fallimentari, budget prosciugati e la stessa, identica domanda: “Ma esattamente, a cosa ci serve?”.
Epilogo: serve un Fantozzi digitale (con licenza di critica)
La verità, impopolare come un congiuntivo azzeccato in un talent show, è che l’AI non è né un capolavoro assoluto né una “cagata pazzesca”. È uno strumento. Potentissimo, imperfetto e che richiede, soprattutto, una cosa che sembra passata di moda: il pensiero critico.
Serve il coraggio intellettuale di alzarsi in piedi, interrompere gli applausi e chiedere: “Scusate, ma siamo sicuri di quello che stiamo facendo?”. Serve la consapevolezza che, prima di affidare le chiavi dell’azienda a un algoritmo, è meglio verificare che non sia lo stesso che ha suggerito a Napoleone di passare le vacanze invernali in Russia.
Insomma, in un mondo che applaude a comando, abbiamo un disperato bisogno di più Fantozzi digitali. Anche a costo di finire “in ginocchio sui ceci” nella sala riunioni del Megadirettore.






















